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Premio di Ricerca

"Valeria Silvia Mellace" 2011

Il vincitore e la sua ricerca

 

 

 

 

Sarah Della Giustina

Nata a Seraing in Belgio il 12 febbraio 1983. Ha conseguita la “candidatura” (due primi anni di università vecchio ordinamento) in Storia dell’arte e archeologia all’Université de Liège nel 2003, e dopo un anno accademico (2003-2004) passato in Spagna all’Universidad de Leòn con la borsa Socrate/Erasmus, si laurea nel 2005 in Conservazione dei Beni Culturali (curriculum archeologico) all’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi dal titolo “Roma. Materiale per una storia degli scavi lungo il primo miglio della via Appia: la Vigna Moroni” (rel. prof.  D. Manacorda). Nel 2008 consegue la laurea specialistica in Scienze dell’Archeologia e Metodologia della Ricerca Storico-archeologica con la tesi “I muri di confine di via di Porta Latina. Analisi tipologico-stratigrafica per la ricostruzione del paesaggio urbano post-medievale” (rell. prof. D. Manacorda, prof. R. Santangeli Valenzani). Nel 2009 inizia la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, curriculum medievale, all’Università “La Sapienza”. I suoi interessi riguardano l’archeologia urbana, soprattutto l’aspetto della trasformazione delle città dal mondo antico al medioevo.

 

 

 

Geomorfologia e trasformazione del paesaggio
sul Piccolo Aventino
Un punto cardine in un rapporto
tra dentro e fuori le mura della città
 
1. Definizione dell'ambito di ricerca

Questo progetto si inserisce nel campo dell’archeologia urbana. Soprattutto in una città come Roma, in cui una quantità enorme di dati di natura diversa entrano in contatto, questa disciplina può esprimersi al suo massimo incrociando tutti i sistemi di fonti e di analisi. Si tratta di un ambito senza dubbio privilegiato di incontro per la sperimentazione di nuovi metodi attraverso un approccio multidisciplinare, nel quale sviluppare ed attuare una riflessione in un quadro più generale di archeologia globale.

La presente ricerca si propone come obbiettivo l’applicazione di questo approccio nella ricostruzione dell’evoluzione di una porzione di paesaggio urbano, attraverso una lettura diacronica a partire dalla nascita e proseguendo con i suoi sviluppi, e le trasformazioni nel corso del tempo: uno sviluppo temporale suddiviso in fasi che rappresentano momenti di vita o di abbandono, di continuità o di cesura. Questo tipo di analisi porta ad una maggiore attenzione al concetto di contesto: più precisamente, il taglio che si è voluto dare a questa ricerca parte dalla cultura architettonica e storica facendole confluire in uno spazio fisico comune, cioè si sofferma proprio sulle trasformazioni geomorfologiche alla base dei processi culturali che spingono la città ad evolversi.

 

2. Lo sviluppo dell'area del Piccolo Aventino: perdiodizzazione dei dati editi

La porzione di territorio scelta per questa ricerca è dunque il Piccolo Aventino (Fig. 1), un’altura localizzata sull’estrema ramificazione orientale del colle Aventino.

 

Dalle origini al periodo repubblicano (BARIVIERA 2012)

Dalle fonti antiche sappiamo che il monte era chiamato Mons Murcus ed appariva in origine come un rilievo tufaceo densamente coperto di boschi. La parte dominante del monte era il Saxum (45 m s.l.m.) (Fig. 1), che sovrastava la valle Murcia con un dirupo ripido digradando più dolcemente verso la valle della via Appia (FILIPPI 2002). Le fonti antiche lo descrivevano come un luogo disabitato dove si concentravano avvenimenti mitici e luoghi sacri.

Non sappiamo praticamente nulla del paesaggio del monte in età proto-urbana. Le fonti tramandano un paesaggio di boschi, con la presenza di culti a loro legati, come quello della Bona Dea, presumibilmente situato sotto il Saxum – da qui il suo appellativo Subsaxana (CHIOFFI 1993). Lo stesso Saxum sembra essere al centro della leggenda di fondazione della città essendo il luogo scelto da Remo per ricevere gli auspici, marcando il luogo con un toponimo ancora oggi presente: “Remoria”/piazza Remuria (ARONEM 1999).

Nel VI secolo a.C. la città viene rinchiusa all’interno di una cinta muraria (Fig. 2) – le Mura Serviane – la quale suddivideva l’altura del Piccolo Aventino in due parti, circondando non solo l’abitato ma anche i rilievi esterni alle curie. L’area doveva presentarsi come un contesto in parte suburbano con tre porte aperte verso la città: la Porta Capena nella valle, la Porta Naeviae a Sud-Est e la Porta Raudusculana a Nord-Ovest verso il Tevere (Per un approfondimento sulle Mura Serviane e le sue porte: ANDREUSSI 1996; CIFANI 1998; CIFANI 2012; COARELLI 1996; GJERSTAD 1960; LANCIANI 1892b; QUINTO – DI MANZANO 1984; SÄFLUND 1932). Non doveva essere quindi sede di edilizia intensiva, al contrario dell’Aventino maggiore, ma continuava a presentarsi come un quadro agreste.

Dopo l’assedio gallico (390 a.C.), i censori del 378, Spurio Servilio Prisco e Quinto Clelio Siculo, iniziarono la ricostruzione delle mura urbane, che coinvolse anche il settore attorno all’Aventino Piccolo. In questo periodo possiamo immaginare l’Aventino Piccolo come una zona residenziale, appendice del più popoloso quartiere plebeo dell’Aventino Maggiore. Per servire i nuovi quartieri questa parte della città venne dotata di un acquedotto (Fig. 1): l’Acqua Appia cheproveniva dal Celio, entrava nella Regio XII a Porta Capena e si dirigeva poi verso l’Aventino Grande.

Dopo la prima guerra punica, il quartiere plebeo sull’Aventino Piccolo continuò ad estendersi con la costruzione di nuove domus lungo l’attuale viale Aventino (CRESSEDI 1953-1955). Come la zona extra-urbana dell’Emporium (Quartiere Testaccio) anche il settore Est del monte conobbe una stagione di grande sviluppo economico accogliendo le prime strutture a carattere commerciale e produttivo.

 

Periodo imperiale

Durante il periodo imperiale, il monte entra a fare parte della Regio XII Piscina Publica insieme alle Terme di Caracalla. Comincia ad essere densamente occupato da infrastrutture a carattere pubblico, dimore private ed edifici religiosi. Possono essere ricollegati al Piccolo Aventino, tra gli altri, gli Horti Asiniani(CHIOFFI 1996) di epoca augustea (presso S. Balbina) e la casa di C. Cassio Longino (LTUR, vol. II, pp. 77-78), console nel 27 a.C., che diventa poi di Ummidia Quadratilla presso San Saba. Nei Cataloghi Regionari sono citate la Privata Hadriani (LTUR, vol. IV, p. 164) – la casa di Adriano prima della sua assunzione all’Impero, gli Horti di Celonia Fabia (LTUR, vol. III, pp. 56-57), e la Domus Cornificia(LTUR, vol. II, p. 32). Vi è anche la testimonianza della casa di Lucio Fabio Cilone (GUIDOBALDI 1993), praefectus urbisnel 203 e console nel 204. Scavi effettuati nell XIX secolo (FIORELLI 1884; HENZEN 1859; VISCONTI 1859) sotto l’Istituto di Santa Margherita scoprirono tratti di muratura in opera mista e monumentali strutture di età adrianea. Dalla menzione nei Cataloghi Regionari deiPrivata Hadriani si può dedurre che il complesso sia da identificare con l’abitazione di Adriano che, successivamente entrato a fare parte del demanio imperiale, sia stato donato nel III secolo d.C. a Cilone da Settimio Severo. Alcune evidenze archeologiche appartenenti ad essa sono ancora visibili sulla facciata della chiesa di Santa Balbina e nelle mura dell’Ex-oratorio (Istituto S. Margherita). In questo periodo possiamo immaginare l’Aventino Piccolo come una zona residenziale.

Inoltre è attestata la IV coorte dei Vigili presso il vicus Piscinae Publicae per la sorveglianza notturna e servizio anti incendi, situata al confine tra le Regiones XI Circus Maximus e XIII Aventinus; le Terme Varriane volute da Eliogabalo (218-222) forse posizionate presso San Saba.

La zona viene infine inglobata nella città con la costruzione delle Mura Aureliane negli anni 271-275 (DEY 2011; LANCIANI 1892a; MANCINI 2011; NIBBY 1820; PISANI SARTORIO 1996b; RICHMOND 1930) (Fig. 3).

 

Periodo tardoantico e medievale

Nel periodo tardoantico, come gran parte della Roma intra moenia, il Piccolo Aventino comincia a spopolarsi insieme alla Regio XII. Entra in disuso la ripartizione regionaria a favore di quella ecclesiastica, e il piccolo Aventino viene a fare parte della prima diaconia. Intorno al III – IV secolo, le antiche preesistenze diventano sede di due delle principali chiese di culto in lingua greca di Roma: il titulus Trigridae (EPISCOPO 1993) (seconda metà del IV sec.) poi chiesa di Santa Balbina a partire dal VI secolo, l’oratorio di Santa Silvia poi chiesa di San Saba nel VII secolo (Fig. 4). La prima si insediò all’interno di un’aula del complesso dei Ciloni: secondo il martirologio romano risalente al V secolo, Balbina figlia di Quirino, carceriere di San Pietro, anch’esso martire, fu arrestata e decapitata per ordine dell’imperatore Adriano. Tradizionalmente è attribuito alla santa la miracolosa guarigione di Papa Alessandro I tramite l’imposizione delle catene da lei ritrovate che imprigionarono San Pietro.

Due secoli più tardi (645 ca.), un gruppo di monaci provenienti dal convento di S. Saba in Giudea si stabilì sul Piccolo Aventino, in una domus che forse era appartenuta alla famiglia materna di Gregorio Magno (origine nel 575 ca. tramandata da Giovanni Diacono, Vita Gregorii, I, 9). La sala di ricevimento fu trasformata in oratorio – le cui pareti furono poi incorporate nella parte inferiore della facciata della chiesa di San Saba – e sotto il suo pavimento i monaci crearono un tipico cimitero palestinese con due ordini di tombe a forno.

Alla fine del medioevo l’area è ormai un’ampia estensione rurale dominata dalle rovine delle terme, con le due chiese come unica forma di insediamento, disposte lungo il tracciato viario. Lo spazio circostante comincia a fare parte di una zona disabitata assumendo così il carattere tipico della campagna romana anche intramuranea, un aspetto che manterrà durante tutta l’epoca moderna.

 

Epoca moderna

Solamente più tardi, dopo l’unità d’Italia e la scelta di Roma come capitale (1871), la regione è inclusa nel Piano Regolatore del 1873 e diventa particolarmente funzionale grazie alla sua urbanizzazione, alla densità demografica più alta e alla costruzione di nuovi centri di servizio in progetto sulla via Ostiense.

A partire dal 1907 la chiesa di S. Saba fu scelta come elemento centrale del futuro insediamento abitativo dell’Istituto Case Popolari (costituito nel 1903). Mentre al di là del viale Aventino si completava l’insediamento intensivo delle case di Testaccio, destinate ad ospitare, in condizioni piuttosto precarie, dato il massimo sfruttamento dello spazio, gli operai del contiguo mattatoio e delle altre officine sorte nei pressi, Quadrio Pirani venne incaricato della realizzazione del nuovo complesso di abitazioni del Rione XXI San Saba. L’architetto cercò di trovare soluzioni per dare alle abitazioni un decoro simile a quello della piccola borghesia cittadina, realizzando villini a due piani con ingresso indipendente, palazzi di non più di quattro piani, dotati di aria e di luce. Una particolarità dell’architettura è l’abbondante uso della cortina laterizia disposta a formare motivi decorativi (GALLAVOTTI CAVALLERO 1989, pp. 54-56).

 

3. Inquadramento geomorfologico e cartografico del territorio

Il Piccolo Aventino rappresenta quindi una zona fortemente legata alle regioni limitrofe e offre uno spunto importante per capire alcune dinamiche socio-economiche alla base dei cambiamenti ad ampia scala presenti nella periferia meridionale di Roma. Approfondire alcuni temi che siano aspetti della storia culturale, agraria, religiosa, politica, economica o sociale, impone l’uso di diversi sistemi di fonti. Queste informazioni ci permettono di dare una direzione alla ricerca e di approfondire diversi temi come: il rapporto tra il monte e la pianura dal punto di vista geografico, storico ed urbanistico e, in modo particolare, il rapporto con il versante della zona del Testaccio; il rapporto tra fuori e dentro la città con la costruzione del recinto murario severiano ed in seguito quello aureliano; lo studio delle quote e dei livelli di calpestio che si possono ricavare dal rapporto tra le fonti antiche e gli scavi effettuati nella zona, tramite anche lo studio degli elevati per la definizione dei livelli originari delle varie epoche, dello studio delle viabilità e delle sue trasformazioni attraverso il tempo; la costruzione di una periodizzazione e l’elaborazione di piante di fase.

Lo studio di carte geologiche, fondamentale per questa ricerca, ha permesso in un primo tempo di capire quali erano le formazioni che costituivano il monte. Possiamo vedere che il monte è quasi esclusivamente caratterizzato da un deposito fluvio-lacustre che risale alla fine del Pleistocene medio-superiore, e quindi relativamente recente. Un altro elemento interessante è lo stacco netto delle formazioni all’altezza di viale Aventino, tra Aventino piccolo e grande, quasi a sembrare un taglio per la creazione di una viabilità (come ad esempio succede per la via Appia nei pressi della porta con il clivo di Marte) (Figg. 10-11).

Una parte dello studio si vorrebbe soffermare proprio sul momento della fondazione delle Mura Aureliane, in rapporto con la morfologia del terreno, a determinare quanto i caratteri geologici abbiano profondamente influenzato il loro sviluppo. La costruzione del nuovo recinto ebbe un impatto notevole le cui ripercussioni non hanno cessato di farsi sentire più di 17 secoli dopo. Già Lanciani sollevava la questione del rapporto tra la città e la sua periferia determinando che non esiste una risposta unica alla domanda di dove una città si conclude e dove inizia la sua periferia. Si deve notare che, nel periodo imperiale, non esisteva un confine applicabile universalmente: il pomerio era un limite fisso, la cinta daziaria un altro e le Mura Serviane un terzo, e ad ogni modo, il centro urbano si era esteso ben al di là di questi limiti, a dimostrare che la definizione di confine è estremamente fluida. In questo senso l’impatto del muro sulla città fu grande in quanto alterò la materialità, la funzione, e la definizione di due spazi da allora divenuti distinguibili con “interno” e “esterno”.

Secondo l’analisi di Hendrik W. Dey (DEY 2011), alla quale aderisco completamente, l’impatto topografico del muro si definisce su scale diverse. La prima, che interessa particolarmente questo studio, si manifesta al livello locale, dove la costruzione del muro determinò l’immediata distruzione di intere aree ed edifici, per lo più ville, horti, aree sepolcrali,… dando un senso di improvvisa violenza di intervento sul paesaggio urbano. Bisogna anche tener presente che lo spazio eliminato durante la costruzione del muro era di gran lunga più ampio rispetto ai 4 m della sua trincea di fondazione poiché, oltre alla cinta, era previsto già nel progetto un zona di spazio aperto, sia dentro che fuori, essenziale per la circolazione rapida delle truppe o del trasporto delle forniture, o degli operai per la manutenzione. Il punto fondamentale per la trasformazione del paesaggio è che il muro creò, fin dall’inizio, un taglio molto più ampio di quanto non fosse alto, da stimare a 40-50 m di larghezza, marcando il territorio più in senso orizzontale che verticale.

Le morfologie originarie del paesaggio romano sono state ampiamente modificate dai processi che hanno determinato lo sviluppo della città. Opere di sbancamento finalizzate alla costruzione di edifici o all’intensa attività di cava, riempimenti a scopo di bonifica, accumuli di macerie e di rifiuti, riempimento o canalizzazione dei corsi d’acqua, hanno trasformato i caratteri fisici del territorio e determinato il ricoprimento pressoché totale dell’area urbana con una coltre di terreni di riporto (che può raggiungere anche più di 20 metri di spessore). Questo fenomeno ha fatto sì che in alcuni punti, l’altezza originaria della cinta muraria fosse del tutto offuscata; un esempio emblematico del maggiore accumulo di materiali di riporto si definisce proprio in corrispondenza del primitivo letto fluviale oggi completamente obliterato. Un fenomeno che si riscontra invece in modo molto meno evidente sui rilievi più importanti della città come quello del Piccolo Aventino.

Il problema sostanziale nel rintracciare i livelli in uso nelle varie epoche – e di conseguenza anche il livello della fondazione della cinta muraria – è proprio la mancanza di dati utilizzabili: al giorno d’oggi pochissimi carotaggi e scavi sono stati eseguiti nelle vicinanze delle mura, o non sono stati pubblicati, o sono stati pubblicati senza le informazioni riguardanti le quote relative dei ritrovamenti, o ancor meno quello assolute, e molte volte, soprattutto se si tratta scavi antichi, i sondaggi non sono neanche posizionati in modo certo.

Questo punto rimane infatti un nodo doloroso di questa ricerca che voleva, prima di ogni altra riflessione sui cambiamenti del paesaggio, definire questi livelli in verticale per poter, solo in un secondo momento, ragionare in maniere orizzontale punteggiando il territorio di evidenze risalenti dall’antichità ai giorni d’oggi.

Un aiuto notevole, che ha come particolarità di unire il dato tridimensionale alla visione sostanzialmente “più planimetrica”, è stato quello dell’utilizzo combinato del DEM e della cartografia storica e moderna.

Mi soffermerò in particolare sulla lettura della cartografia a partire dalla pianta di G.B. Nolli del 1748. L’obbiettivo di Nolli era l’esatta rappresentazione topografica attraverso un preciso rilievo scientifico. La sua pianta diventa la piattaforma conoscitiva ed operativa per l’amministrazione pontificia di Benedetto XIV (1740-1758). Questo modo di rappresentazione diventerà la base di tutta la cartografia romana successiva rendendo possibile l’esame dell’evoluzione del paesaggio. Per una lettura analitica, alcune di queste carte sono state quindi georiferite e vettorializzate così da permettere una loro coincidenza quasi perfetta.

La sovrapposizione del modello di superficie alla pianta di G. B. Nolli e alla pianta di Roma antica di Lanciani ci forniscono indicatori molto chiari per quello che riguarda l’evoluzione del paesaggio urbano (Fig. 6). Ad esempio, è abbastanza evidente la continuità della viabilità. Anche l’orografia indicata da Nolli non sembra subire sostanziali modifiche. Il paesaggio che si ritrova all’interno del recinto murario non è più costituito da ricche residenze private, ma da chiese e proprietà agricole. In tale senso la restituzione del catasto Pio Gregoriano sul modello di superficie è molto chiaro (Fig. 7). Se invece lo sovrapponiamo alla base catastale odierna possiamo vedere, ad esempio, quanto i confini di proprietà sono stati rispettati nell’urbanizzazione del monte (Fig. 8).

Parlando dell’idrologia del terreno, la Piscina Publica doveva essere stata una sorgente di notevole importanza tanto da dare il nome a tutta la zona per la particolare ricchezza d’acqua. R. Lanciani non aveva dubbi nell’ubicarla ai piedi del colle Aventino tra l’entrata delle Terme di Caracalla, le mura Serviane e la Via di Santa Balbina (LANCIANI 1881, nota 10). È molto probabile quindi che le sorgenti della Piscina Publica siano state captate al momento della costruzione delle Terme per farle scorrere come acque di pulizia nella fogna profonda. La loro ubicazione andrebbe di conseguenza localizzata a sud-est delle Terme di Caracalla (CORAZZA – LOMBARDI 1995).

Grazie alla Carta geologica del Comune di Roma pubblicata da R. Funiciello (FUNICIELLO et alii 2008) (Fig. 9) e sondaggi per mezzo di carotaggi effettuati dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma preventivamente alla riqualificazione attorno alle Mura Aureliane all’angolo tra viale Giotto e via Guerrieri (ASSAR, Relazione geoarcheologica su un carotaggio eseguito a Roma, in cantiere viale Giotto – L.go Lazzarini – via Guerrieri, 2013) è stato possibile ricostruire il modo preciso la successione geologica che compone il Piccolo Aventino.

Nel sondaggio sono riconoscibili vari strati geologici: a partire dal più antico, la Formazione di S. Cecilia (CIL), l’Unità di Tor de’ Cenci (TDC), i tufi stratificati varicolori di Sacrofano (SKF), il tufo lionato (VSN1), le pozzolanelle (VSN2), e la Formazione Aurelia (AEL). Risalgono tutte al Pleistocene Medio. Poi seguono l’Unità di Saccopastore (SKP), del Pleistocene superiore, e i depositi alluvionale olocenici (STFba).

L’unità più antica (CIL) è costituita dall’alternanza di conglomerati, sabbie e limi di ambiente fluviale e palustre, elementi vulcanici e paleosuoli. Al di sopra si trova il primo deposito relativo all’attività vulcanica (TDC), un deposito piroclastico, grigio-giallastro cineritico, con lapilli fino a 3 cm di diametro, sia nella matrice che in livelli stratificati. Sono riscontrabili frequentemente delle impronte d’albero all’interno dello strato. Successivamente si incontrano i SKF: successione di depositi piroclastici lapillosi e cineritici in strati contenenti scorie e litici lavici intercalati a livelli vulcanoclastici rimaneggiati. La provenienza prevalente dei depositi di questo strato è dai vulcani sabatini ed è spesso fino a 14 m. Al di sopra è presente la VSN caratterizzata da due depositi derivanti da due successive unità di flusso piroclastico, facenti parte di un’unica eruzione: il tufo lionato (VSN1) litoide, massivo e caotico, di colore rosso fulvo, contenente scorie da marroni a grigiastre, litici lavici e cristallini; le pozzolanelle (VSN2), un deposito massivo e caotico prevalentemente pozzolanaceo, con scorie grigie o nerastre, litici lavici e cristallini, ed abbondanti cristalli di leucite. Al di sopra è presente la formazione Aurelia (AEL) caratterizzata da depositi fluvo-lacustri costituiti da ghiaie e sabbie quarzose che passano, più in alto, a limi argillosi. Successivamente sono presenti i depositi SKP costituiti da ghiaie e sabbie con elementi vulcanici e limi argillosi.

Dopo il sollevamento tettonico regionale di diversi metri e la successiva forte erosione accentuata dalle oscillazioni del livello del mare connesse con le ultime fasi glaciali, a partire da circa 19000 anni fa iniziano a deporsi, all’interno delle valli profondamente incise nelle sequenze sedimentarie e vulcaniche che abbiamo elencato, sedimenti alluvionali connessi con la risalita del mare in seguito allo scioglimento dell’ultima calotta glaciale. Per questo motivo troviamo i depositi alluvionali olocenici (STFba), di origine fluvo-lacustre, a quote molto più basse in tutte le aree di pianura alluvionale.

Inoltre, dalla sovrapposizione di due carte di Ventriglia, la prima che definisce lo spessore dei riporti e la seconda lo spessore delle formazioni affioranti, è stato possibile ricostruire due sezioni che definiscono l’andamento morfologico dell’area partendo dai livelli contemporanei (Figg. 10 e 11).

 

4. Creazione della banca dati

Dopo l’analisi dei dati cartografici (e la loro georeferenziazione nella banca dati), sono state introdotte le informazioni prettamente archeologiche provenienti essenzialmente dagli scavi eseguiti sul territorio indagato, le cui relazioni sono state reperite principalmente nell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (ASSAR).

Dati i molteplici metodi di classificazione e di interpretazione per realizzare tale banca dati, e nell’intento di evitare di creare ancora una volta un metodo a sé, isolato e incompatibile con altri studi sul territorio, si è deciso di seguire il metodo adottato nella recente pubblicazione di Barbara Roggio (ROGGIO 2012), anche perché rappresenta lo studio di un territorio limitrofo a quello preso in esame in questa ricerca. Questa scelta è stata dettata dalla mia formazione e dalla mia esperienza nel campo dell’archeologia, e soprattutto dello studio delle trasformazioni del paesaggio in ambito urbano, durante il quale mi sono imbattuta in moltissime versioni di studio del territorio affrontato in modi diversi e spesso incompatibili. In questa maniera mi sembra che i dati vengano moltiplicati senza arrivare ad uno studio complessivo ed unitario, e quindi perdano la loro valenza come indicatori archeologici, storici o topografici.

Per classificare i vari ritrovamenti sparsi sul Piccolo Aventino si è usato il termine di UNITÀ DI CONTESTO (TERRENATO 2003): questo comprende tutte le preesistenze delle quali sono note la situazione o le circostanze del ritrovamento, quindi il loro contesto. Collegare un reperto al suo contesto significa vederlo con ogni altro reperto vicino nello spazio, nel tempo, o con caratteristiche analoghe.

Le informazioni sono state poi classificate in base alla precisione del loro posizionamento nella banca dati cartografica. Gli oggetti sono stati poi divisi tra quelli la cui planimetria era nota e quelli la cui planimetria non era conosciuta. Altresì le dimensioni dei reperti sono state prese in considerazione facendole entrare nella categoria degli oggetti con una dimensione superiore a 2 m, inferiore a 2 m o le cui dimensioni non sono precisate. Infine l’indice di visibilità è stato un altro fattore degno di nota.

Le schede di ogni UC sono quindi elaborate in ordine numerico, con rappresentazione grafica di ogni unità, e secondo le seguenti voci: Unità di contesto (numero progressivo e nome) e documentazione grafica; posizionamento; dimensione; quote; stato di conservazione (indice di visibilità); descrizione; datazione; documentazione iconografica (comprendente la cartografia storica, le vedute, le fotografie di epoca e attuali, e le rappresentazione per mezzo di incisioni o pitture); bibliografia.

 

5. Periodizzazione dei dati archeologici di archivio

In conclusione a questo lavoro di schedatura e georeferenziazione viene la possibilità di creare delle piante di fase – o meglio di macro-fase – delle evidenze archeologiche presenti sul territorio.

La divisione in macro-periodi è stata eseguita in questo modo:

- Periodo 1 – dall’età Arcaica all’epoca Repubblicana (IV a.C. – 14 a.C.): il terminus post quem è la costruzione delle Mura Serviane; il terminus ante quem è la proclamazione di Ottaviano come Augusto.

- Periodo 2 – Primo impero (14 a.C – 96 d.C): la dinastia Giulio-Claudia e Flavia.

- Periodo 3 – Medio impero (96 – 235): dalla dinastia degli Antonini a quella dei Severi.

- Periodo 4 – Tardo impero (235 – 324): dalla crisi del III secolo alle guerre civili.

- Periodo 5 – Periodo Tardoantico (324 – 590): da Costantino all’inizio del papato di Gregorio Magno.

- Periodo 6 – Alto Medioevo (590 – 1000 ca.): da Gregorio Magno alla fine convenzionale dell’Alto Medioevo.

 

Dall’età Arcaica all’epoca Repubblicana (VI a.C. – 14 a.C.)

In questo periodo, oltre alle presenze evidenziate dalle fonti antiche, la costruzione che scandisce l’inizio del periodo, e che più ci interessa nella lettura dei cambiamenti del paesaggio “archeologico”, è la cinta di Servio Tullio. Nella planimetria presentata si è scelto di sovrapporre alle UC la pianta di Lanciani (LANCIANI FUR, tav. 41) che rappresenta al meglio come doveva essere il territorio nel periodo antico (Fig. 12). Se eliminiamo tutti gli elementi successivi, possiamo vedere delinearsi sul monte il percorso delle Mura arcaiche. Grazie ai ritrovamenti della fine del secolo scorso, vediamo come il percorso cambia, soprattutto nella parte NE, rispetto all’interpretazione della Forma Urbis. Dopo aver seguito, con un orientamento NO-SE, il ciglio del colle lungo l’Istituto S. Margherita, le mura piegano verso SO fino a raggiungere l’odierna via Aventina, antico vicus Portae Naeviae. A questo punto si apriva la Porta Naevia, dalla quale usciva la via Ardeatina, seguiva poi l’orientamento del tracciato di quest’ultima fino a riprendere il percorso indicato da Lanciani (Fig. 13). La Porta Naeviaè quindi notevolmente spostata verso NO rispetto a quello che si era pensato.

 

 

Il Primo periodo imperiale (14 a.C. – 96 d.C.)

Le evidenze archeologiche sono più numerose e cominciano ad articolarsi sul territorio.  Da uno sguardo veloce del panorama del periodo vediamo che la maggior parte delle evidenze sono legate a costruzioni (muri, pavimenti), insieme all’organizzazione del territorio con la viabilità (strade) i servizi (fogne, cisterne) e la ripartizione territoriale (cippi).

Per quanto riguardo quest’ultimo punto, ricordiamo che è in questa fase che Augusto decise di ripartire il territorio di Roma in 14 Regioni. Il cippo ritrovato doveva segnare, senza dubbio, il confine Ovest della Regio XII Piscina Pubblica.

L’evidenza archeologica più importante del secondo periodo è quella ubicata all’incirca al centro del Piccolo Aventino che appartiene alla Statio IV Cohortis Vigilum, e che segna la rilevanza del colle in quanto punto di controllo degli incendi nelle regioni circostanti.

Invece, da ricollegare con le scoperte di lacerti di muri risalenti a questo periodo è probabilmente l’inizio dell’insediamento di abitazioni private: ad esempio nell’area di Santa Balbina, le strutture di età augustea presenti nei sotterranei sono da riferire a delle strutture donate a Fabio Cilone dall’imperatore Settimio Severo e da identificare probabilmente con gli Horti Asiniani menzionati dalle fonti antiche, o i lacerti murari e la fogna scoperti durante la costruzione delle case popolari di San Saba potrebbero appartenere, anche se non sappiamo l’ubicazione esatta, alla casa di C. Cassio Longino, segnalata dalle fonti nelle vicinanze della chiesa di San Saba.

Anche per questo periodo è stata sovrapposta la Forma Urbis di Lanciani per capire la forma del paesaggio (Fig. 14).

 

L’età medio-imperiale (96 – 235)

Il processo avviato durante l’epoca precedente si amplifica nella media età imperiale.

In primo luogo, delle evidenze archeologiche ci mostrano l’inizio del processo di disuso delle Mura Serviane: vengono tagliate per ricavare un passaggio tra due ambienti costruiti al loro interno. Questo fatto è molto importante e dimostra quanto la città intramuranea è ormai “intrappolata” entro il suo perimetro e circa di uscirne poco a poco. Anche Fabio Cilone userà una parte delle mura nel restauro della domus a lui donata. Sull’altro ciglio del colle vediamo apparire uno sfruttamento del territorio tramite una cava per raccogliere il tufo, proprio a ridosso delle mura. I resti archeologici di maggiore ampiezza di questa fase appartengono ad un edificio interpretato come mitreo da E. Gatti durante la sua scoperta nei pressi della chiesa di San Saba nel 1923. Anche questo è indizio di un cambiamento di uso notevole della zona, avvenuto probabilmente alla fine di questo periodo. La cartografia di riferimento usata qui rimane ancora una volta la Forma Urbis di Lanciani, escludendo sempre gli elementi precedenti e successivi (Fig. 15).

 

La tarda età imperiale (235 – 324)

Gli unici dati archeologici presenti sul territorio sono, ovviamente, la cinta muraria di Aureliano e tracce della strada interna alle mura. Anche qui la planimetria di Lanciani ci è utile, anche per una lettura sommaria delle fasi della Mura Aureliane ( Non è stato effettuato per questa ricerca uno studio approfondito delle fasi delle Mura Aureliane poiché rappresenta uno studio a sé con obbiettivi diversi rispetto al presente lavoro. Per una lettura in grandi linee di questi fasi si veda MANCINI 2011) (Fig. 16).

 

Il periodo Tardoantico (324 – 590)

Il periodo tardoantico è quello, in molti luoghi della città, della costruzione delle grandi domus aristocratiche. Anche qui sul Piccolo Aventino ne abbiamo la testimonianza, tramandataci dagli edifici di culto. In effetti, il Titulus Trigridae, poi chiesa di Santa Balbina, e l’oratorio del monastero Cellae Novae, luogo poi della basilica di San Saba, s’insediano nelle grandi aule absidate di rappresentanza di queste domus (Fig. 17).

 

L’Alto Medioevo (590 – 1000)

Il paesaggio che si viene a formare nel periodo altomedioevale rimarrà in un certo senso “immobile” fino all’epoca moderna.

Come già accennato, il Piccolo Aventino si trasforma poco a poco in un esteso territorio agreste con le due chiese come unica forma di insediamento. Un fenomeno notevole è quello dell’inserimento di aree sepolcrali all’interno delle mura, di cui sono noti due esempi sul monte, un fenomeno ampiamente studiato da R. Santangeli Valenzani e R. Meneghini (MENEGHINI – SANTANGELI VALENZANI 2001).

Per la rappresentazione del colle durante questo periodo, e nelle epoche successive, si è effettuata la sovrapposizione di tre carte storiche: quella di Nolli del 1748 (Fig. 18), il Catasto Pio-Gregoriano del 1819 (Fig. 19) e la planimetria moderna presenta nella Forma Urbis di Lanciani degli inizi del Novecento (Fig. 20). Il primo dato che si può notare è che, messe da parte le poche case ad uso delle proprietà private che suddividono il Piccolo Aventino (una suddivisione aumentata rispetto al periodo altomedioevale), il paesaggio dall’Alto Medioevo fino al Novecento non cambia sostanzialmente.

 

6. Studiare complessivamente un’area urbana

In conclusione a questo lavoro vorrei scrivere qualche riga sugli obiettivi della ricerca. Il mio progetto voleva orientarsi verso molti punti che, purtroppo, non sono riuscita a portare a termine nell’ambito di un anno di ricerca. Penso che uno studio del genere potrebbe in realtà essere lo studio di tutta una vita, ma vorrei comunque precisare alcuni punti per me importanti. Ci sono due obbiettivi massimi, ai quali spero un giorno di avvicinarmi, che sono germogliati nel corso nelle ricerche, tutti due in relazione allo studio delle quote.

Il primo è di eseguire una piattaforma GIS, già ampiamente impostata sia a livello teorico che pratico, con gli innumerevoli dati provenienti da ogni tipologia di fonte, realizzata però in tre dimensioni. L’idea sarebbe quella di inserire ogni oggetto, partendo dal terreno geologico, alla quota sul livello del mare alla quale è stato rinvenuto, in situ o no, per capire sia l’evoluzione naturale, sia quella antropica del Piccolo Aventino, e sicuramente trovare altri spunti di riflessione da quest’impatto visivo.

Il secondo obbiettivo, derivato dal primo e quasi utopico a mio avviso, se non con indagini mirate, dato i pochissimi dati trovati finora al riguardo, è quello di identificare la quota di fondazione delle circuito difensivo di Aureliano e disegnarlo in tre dimensioni, al fine di cogliere, anche qui, l’impatto sul territorio circostante, e quali sono state le scelte che hanno spinto a costruire in punti piuttosto che in altri.

Ovviamente, il lavoro non è finito, ma difficilmente si può mettere un punto a uno studio in ambito urbano, soprattutto in una città come Roma. Spero che in un'altra sede ci sarà modo di avvicinarcisi.

 

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